22 Gen 2021

Giornata della Memoria 2021

Si racconta che, quando l’ufficiale americano chiese al soldato mandato in avanscoperta, che cosa avesse trovato di così sconvolgente, quello rispose, con un balbettio: “Non lo so…” Uscito dal bosco, gli era accaduto di imbattersi nel reticolato di un lager nazista. Probabilmente lo stesso balbettio rotolò sulle labbra del soldato sovietico che, il 27 gennaio 1945, si presentò al cancello di Auschwitz. Non c’erano (forse non ci sono) parole in grado di descrivere ciò che, oltre il filo spinato e le torrette, si era consumato.

Ma, usando le parole di Primo Levi, se comprendere è impossibile, conoscere è necessario.

È questo il senso della Giornata della Memoria.

Tra i tanti capitoli della storia umana, tutti importanti, ce n’è qualcuno che si impone, appunto, come necessario, inevitabile. Forse perché, più di altri, mette a nudo il mistero del cuore dell’uomo, il luogo che, fin dall’origine, ospita il duello tra bene e male, tra libertà e arbitrio, tra desiderio e incubo.
La Soluzione Finale, lo sterminio di milioni di ebrei e, insieme a essi, di milioni di innocenti, di disabili, di credenti e preti, di resistenti, di omosessuali, di zingari, ad opera dei nazisti è uno di quei capitoli. Abbiamo il dovere della memoria, per noi, innanzitutto, per le persone che ci sono care, per i nostri rapporti, per le nostre città, per la nostra socialità. Perché è anche nel nostro cuore che accade, in modo infinitamente meno cruento, ma non più banale, quel medesimo duello.

E, come sempre nelle cose umane, c’è bisogno dei riti. Cioè di date, di tempi, di liturgie, quasi. Ci suggerisce la psicologia che i ricordi sono personali e soggettivi, mentre la memoria è collettiva, nel senso che i ricordi personali vengono rielaborati prima singolarmente e poi collettivamente, diventando patrimonio della comunità. Permettono cioè di riconoscere come valore una certa cosa e come minaccia un’altra. Si tratta, essenzialmente, di un lavoro, perciò di qualcosa che coinvolge tutta la persona: la razionalità, il sentimento, l’esperienza, la preghiera, perfino la manualità.

Per questo una scuola è il luogo privilegiato in cui svolgerlo. Qui siamo tutti interi: occhi e mani, pensiero e operosità, passioni e relazioni. Anche (soprattutto) in questo periodo così faticoso, abbiamo bisogno di riconoscerci reciprocamente in una memoria che non sia solo denuncia, ma diventi costruzione.

Una delle domande, forse la domanda, che molti intellettuali, Adorno, Jonas tra gli altri, si sono posti di fronte ad Auschwitz è: Ma dov’era Dio?. Altri hanno aggiunto: Dov’era l’uomo?.

È lontana da noi la pretesa di essere in grado illuminare questo abisso di mistero. Ci piace solo ricordare, umilmente, ciò che qualcuno ha tentato di dire, con parole semplici, come per fortuna a volte è semplice la verità. Parole che sentiamo vicine al compito che ogni mattina, come insegnanti e studenti, ci disponiamo tenacemente a compiere.

Suonano più o meno così: Dov’era Dio? Era in cortile, seduto, a insegnare l’alfabeto ai bambini.

Siamo tutti qui, seduti con lui. Sentiamo il calore del compagno vicino, stretto a noi. A volte ci distraiamo, ma dopo un istante, lo sguardo ritorna al maestro.

Siamo tutti qui, a imparare nuovamente e ancora e sempre, le lettere e poi le sillabe e poi le parole.

E i nostri balbettii, piano piano, diventano dialogo.